MAGGIO 2019
Un interessante giudizio di Frederick Rolfe sul Re Vittorio Emanuele
III
di Domenico Giglio
Mi ha meravigliato, qualche tempo fa, vedere nelle librerie una
nuova edizione di un romanzo di fantapoltiica storica ed
ecclesiastica, dal titolo “Adriano VII”, opera di uno
scrittore inglese, nato a Londra nel 1860, Frederick
Rolfe, detto “Baron Corvo”, scritto nei primissimi anni
del ventesimo secolo, che, al suo apparire, nel 1904,
aveva riscosso un grande interesse e di cui, nel 1964,
era stata effettuata una ristampa dalla “Longanesi &
C.”. Infatti erano più di cinquantanni che il silenzio
aveva avvolto questo romanzo, all’epoca avveniristico,
perché parlava di un semplice sacerdote straniero,
eletto Papa, dopo un tormentato Conclave, che aveva
assunto il nome di Adriano, settimo di questa serie di
pontefici, proprio a sottolineare che Adriano Vi,
mancato nel 1523, era stato l’ultimo Pontefice non
italiano.
Ora, pur essendo interessante analizzare e commentare questo
romanzo, mi limiterò a sottolineare una parte in cui,
l’immaginario Pontefice, parla dei Capi di Stato
dell’Europa dell’epoca, per cui viene a trattare
logicamente di Vittorio Emanuele III. “E’ uno dei
quattro uomini più intelligenti del mondo” dice infatti
parlando del Re, oltre a sottolineare la sua
costituzionalità, il non aver commesso “un solo errore,
una sola azione ingiusta e nemmeno ingenerosa”, notando
la sua importanza sostanziale nella vita nazionale,
anche se non apparente, “quale sia il partito che è al
potere”.
Questo dunque è il giudizio di un scrittore straniero acuto ed
intelligente, che aveva vissuto qualche tempo a Roma,
amava l’Italia, dove poi morì nel 1913 a Venezia, per
cui ben conosceva fatti e personaggi, alieno per
carattere da ogni spirito cortigiano, che infonde nel
personaggio di questo Papa, a dimostrazione del
prestigio di cui godeva il Re e che con il Re, innalzava
anche l’Italia. Quel prestigio che portò un ricco uomo
d’affari, un israelita polacco, trasferitosi negli Stati
Uniti, David Lubin, a sottoporre a Lui e non ad altri
l’idea di una istituzione, un Istituto Internazionale di
Agricoltura, progenitore della F.A.O., che proprio per
merito di Vittorio Emanuele III, fu realizzato, con
firma istitutiva del 7 giugno 1905, operatività dal
1908, con sede a Roma, in un palazzo appositamente
costruito all’interno della villa “Umberto I”, già
Borghese. Ed il Re contribuì personalmente sia per
l’edificazione del palazzo (oggi sede del CNEL), sia
alla vita dell’Istituto, con un contributo annuo di
300.000 lire, tratto dalla sua Lista Civile. E sempre
per la sua fama di uomo di grande equilibrio e cultura
(un numismatico, come fu il Re non poteva non avere
cultura storica) diversi stati esteri gli affidarono il
giudizio su delicati problemi di confini accettandone le
decisioni. E nel 1903-1904 furono Brasile e Regno Unito
per una frontiera della Guiana Inglese, nel 1905 ancora
il Regno Unito ed il Portogallo per il confine del
Barotseland e nel 1909 il Messico e la Francia per
l’isola di Clipperton .Ora di questo Sovrano, di cui
l’11 novembre prossimo ricorrerà il centocinquantesimo
della nascita, di tutto questo non si fa mai cenno,
irridendolo volgarmente invece per il suo aspetto fisico
(non è forse razzismo?) e condannandolo senza appello
per una triste vicenda avvenuta nel suo lungo regno.
25 maggio 2019
Per rispetto alla verità storica
Perché l’Istituto Vittorio Emanuele III non deve
cambiare nome.
di Salvatore Sfrecola
Pace fatta tra la Professoressa Maria Rosa dell’Aria e
il Ministro dell’interno Matteo Salvini. Si sono
incontrati ieri in Prefettura a Palermo, nel giorno nel
quale è stato ricordato il sacrificio di Giovanni
Falcone, di Francesca Morvillo e degli uomini della
scorta fatti saltare dalla Mafia con 400 chili di
tritolo sull’autostrada per il capoluogo siciliano,
all’altezza dello svincolo di Capaci. Si sono chiariti
il Ministro e la docente dell’Istituto tecnico Vittorio
Emanuele III dopo l’episodio della sospensione disposto
a carico dell’insegnante per non aver vigilato sui suoi
allievi che hanno equiparato il decreto sicurezza alle
leggi razziali del 1938. Non meritava quella sanzione
disciplinare che ha scatenato polemiche nelle quali
tutti si sono inseriti per denunciare un attentato alla
libertà di manifestazione del pensiero e di
insegnamento, i sindacati della scuola e gli studenti,
ma anche i partiti politici, di sinistra, per i quali è
stata un’occasione ghiotta alla vigilia di una
importante scadenza elettorale.
Non meritava la sospensione. Bastava una tiratina
d’orecchi da parte del Preside quell’insegnante che
aveva il dovere di spiegare e far capire ai suoi allievi
che quella equiparazione non è corretta. I giovani vanno
formati a comprendere i fatti che devono essere loro
presentati distinti dalle opinioni, secondo una regola
che è degli storici come dei giornalisti.
Ed ha sbagliato la Senatrice a vita Liliana Segre a
chiedere che l’Istituto cambi nome del Re che “ha messo
la sua firma sulle leggi razziali”. Magari, suggerisce,
Vittorio Emanuele II anziché III. Sbaglia perché
evidentemente dimentica che, “processato”, ad iniziativa
della Comunità Ebraica di Roma, per aver promulgato,
dopo tre rifiuti, le leggi approvate dal Consiglio dei
Ministri e votate da Camera e Senato, il Re Vittorio
Emanuele III è stato assolto da ogni addebito dai
“giudici” che hanno riconosciuto che un Capo dello Stato
costituzionale s’inchina sempre al volere delle Camere.
Alla Senatrice Segre va anche ricordato che, ripresi i
poteri statutari dopo il 25 luglio 1943, sulla base del
voto del Gran Consiglio del Fascismo all’ordine del
giorno Grandi, che espressamente chiedeva fosse
ripristinata “la legalità costituzionale”, che il
Fascismo aveva compresso, il Re Vittorio Emanuele III ha
congedato Mussolini con un atto che i giuristi “di
sinistra” continuano ancora oggi a ritenere un colpo di
Stato, ha portato l’Italia fuori da una guerra, non
voluta dagli italiani e da Lui stesso subita, ed ha
abrogato le leggi razziali che sempre aveva apertamente
aborrito.
La storia merita rispetto. Come i protagonisti che
“giudichiamo” a distanza di anni seduti alla nostra
scrivania leggendo libri scritti da chi quegli episodi
non aveva vissuto, a differenza dei protagonisti dei
quali hanno scritto, chiamati a scelte sempre difficili,
spesso da assumere con immediatezza e personale
responsabilità. Spesso senza il supporto di un consiglio
disinteressato e adeguato.
Nel caso del Re Vittorio fu la scelta di salvare il
salvabile dopo che, lasciato solo nel momento del
massimo consenso popolare al Fascismo, si è ritrovato a
comporre i “cocci” di una immane tragedia, essendo
l’unica autorità legittima rimasta dopo la disfatta che
potesse chiedere agli anglo-americani l’armistizio, che
fu concesso in forma di resa senza condizioni. Occorre
rispetto della verità storica perché i giovani sappiano
e siano messi in condizione di giudicare fatti e
protagonisti sine ira ac studio.
24 maggio 2019
FRAMMENTI DI RIFLESSIONI
del Prof. Avv. Pietrangelo Jaricci
Giustizia amministrativa
Nella vigenza della disciplina sul processo amministrativo
telematico, l’atto di parte prodotto in forma non nativa
digitale non è né inesistente, né abnorme, né nullo.
Deve ritenersi piuttosto irregolare, con la conseguenza
che spetta al giudice rilevare la difformità dal modello
legale e stabilire un termine per la rinnovazione
dell’atto a pena di irricevibilità del ricorso (Cons.
Stato, Sez. IV, 4 aprile 2017, n. 1541, con nota di F.
Volpe, L’irregolarità dell’atto processuale
amministrativo alla prova del processo telematico in
Dir. proc. amm., n. 3/2017, 990 ss.).
Un singolo militare può iscriversi a un partito e, anche in tale
qualità, esercitare il proprio diritto di elettorato
passivo, ma non può mai assumere, nell’ambito di una
formazione politica, alcuna carica statutaria neppure di
carattere onorario, a tutela indiretta ma necessaria del
principio di neutralità politica delle Forze Armate
(Cons. Stato, Sez. IV, 9 novembre-12 dicembre 2017, n.
5845, con commento di D. Ponte, Una tutela necessaria
per il principio di neutralità “politica”, in Guida
dir., n. 5/2018, 104 ss.).
“Cialtroni”
È di recente in libreria il volume “Cialtroni” (Milano,
2019) di Indro Montanelli, a cura di Paolo Di Paolo, che
ha raccolto una serie di articoli di un vero Maestro del
giornalismo, pubblicati sui quotidiani La Voce e
Corriere della sera, tra il 1994 e il 2001.
Sono passati in rassegna gli “italiani che disfecero
l’Italia” da Garibaldi a Grillo, per concludere con la
domanda “ma il Paese è meglio della classe politica”?
Ma ciò che maggiormente colpisce è questa amara
riflessione: “ad essere sincero sino in fondo, ho smesso
di credere all’Italia. In un’Italia come questa anche
una sceneggiata può bastare a provocarne la
decomposizione. Sangue non ce ne sarà: l’Italia è
allergica al dramma… Dolcemente, in stato di anestesia,
torneremo ad essere quella terra di morti, abitata da un
pulviscolo umano che Montaigne aveva descritto tre
secoli or sono. O forse no: rimarremo quello che siamo;
un conglomerato impegnato a discutere, con grandi
parole, di grandi riforme a copertura di piccoli giochi
di potere e d’interesse. L’Italia è finita. O forse,
nata su dei plebisciti-burletta come quelli del 1860-61,
non è mai esistita che nella fantasia di pochi
sognatori, ai quali abbiamo avuto la disgrazia di
appartenere. Per me, non è più la Patria. È solo il
rimpianto di una patria”.
Opinioni da ponderare
-
Guido Melis (La burocrazia, Bologna, 1998, 101 ss.).
“Si può cambiare la burocrazia italiana? La storia del
riformismo amministrativo, dalla fine dell’Ottocento ad
oggi, indurrebbe a ritenere di no: questa storia è stata
infatti, essenzialmente, una storia di vinti, di volta
in volta sconfitti proprio dalle logiche inesorabili
della continuità degli apparati e dalle resistenze
insormontabili delle varie burocrazie. Né il potere
politico né quello economico hanno avuto, nel corso
della storia d’Italia, un reale interesse a riformare
l’amministrazione… Modelli organizzativi e culture
professionali ereditati dall’Ottocento, più volte
modificati ma mai definitivamente abbandonati, appaiono
oggi, di fronte ai fattori di cambiamento, assolutamente
inadeguati. È plausibile che toccherà a una nuova
generazione di funzionari pubblici, diversa
dall’attuale, di archiviarli definitivamente”.
-
Roberto Gervaso (Italiani pecore anarchiche, Milano,
2003, 30 s.).
“Il buonista parla bene e razzola male, e dal più
ipocrita dei pulpiti fa le più belle prediche. Non crede
in niente, se non in ciò in cui gli conviene credere… Lo
trovi ovunque perché non sa stare fermo e non conosce
l’inestimabile dono del silenzio. Discetta sulle colpe
della società, responsabile degli infiniti mali che
l’affliggono. Dialoga con i drogati, gli sfrattati, i
sinistrati, gli alienati, gli sbandati, ergendosene a
portavoce e vindice.”
-
Salvatore Sfrecola (La stretta sugli stupratori promessa
da Bonafede è solo un annuncio a vuoto, La Verità, 20
marzo 2019, 12).
“Non basta minacciare il carcere se, poi, quelle pene,
nella misura prevista dal codice, non sono scontate.
Insomma, manca la certezza della pena, poca o tanta che
sia, perché solo la prospettiva di scontare la condanna
nella misura stabilita in sentenza può dissuadere a
delinquere e, comunque, è capace di soddisfare
l’esigenza di giustizia che proviene dalle vittime del
reato e dall’opinione pubblica. È un argomento
ricorrente quello della certezza della pena assicurata
da sempre nei Paesi che hanno a cuore l’amministrazione
della giustizia”.
Avviso agli occupanti abusivi di immobili
Per problemi di erogazione di luce, gas e acqua, è
preferibile contattare direttamente il Vaticano.
A buon intenditor, poche parole.
21 maggio 2019
L’assurda equiparazione delle leggi razziali al decreto
sicurezza
di Salvatore Sfrecola
La polemica sulla sospensione della Professoressa
Anna Maria Dell’Aria, della scuola media statale
Vittorio Emanuele III, alla quale è stato dimezzato lo
stipendio, sembra per non aver vigilato sul lavoro,
presentato dai suoi alunni in occasione della ricorrenza
del 25 aprile, che accomuna le leggi razziali del 1938
al decreto sicurezza voluto dal Ministro dell’interno
Matteo Salvini, terrà ancora banco, almeno fino alle
elezioni europee del 26 maggio. Fa gioco alle Sinistre
accusare il leader della Lega di tendenze autoritarie,
considerato anche che al Ministero dell’istruzione siede
un leghista Marco Bussetti. Scendono in campo i
giornali che insegnano cosa è politicamente corretto,
dove sta la verità e dove l’errore. In testa,
naturalmente, Concita De Gregorio cui è affidato il
fondo de La Repubblica, “E allora sospendeteci
tutti”, con le solite patetiche tiritere: “Se non
possiamo insegnare la storia…”! Il fatto è che non è
stata insegnata la storia, altrimenti non sarebbe stato
fatto il confronto “incriminato”. Manifestano gli
studenti ed i colleghi della docente inalberando la
bandiera della libertà d’insegnamento e della pluralità
delle idee. Come gli allievi del Liceo Anco Marzio di
Ostia “indignati”, convinti che siano a rischio i
principi degli artt. 21 e 33 della Costituzione quanto
alla libertà di manifestazione del pensiero e
dell’insegnamento.
Impera la confusione delle idee. Indipendentemente dalla
fondatezza della misura disciplinare (probabilmente
sbagliata, ma non conosco il provvedimento e da giurista
non scrivo di cose che non ho letto), quei diritti, che
risalgono allo Statuto Albertino, nessuno intende
contestarli. Il tema è diverso. E viene ignorato perché
non fa comodo. Sembra evidente, infatti, che quel che si
rimprovera alla professoressa della scuola media
palermitana è il fatto che se i suoi studenti ritengono
che le leggi razziali e il decreto sicurezza
appartengano ad una stessa logica politica. Il che vuol
dire che non hanno letto né quelle né questo e,
soprattutto, che la docente non ha saputo illustrare
quelle norme. Capito De Gregorio? E se le leggi razziali
costituiscono un unicum nell’ordinamento
giuridico italiano, da aborrire senza se e senza ma, la
legislazione sulla sicurezza, certamente criticabile
come tutte le leggi, da destra e da sinistra, non è
assolutamente associabile alla legislazione razziale. E
questo evidentemente gli studenti non hanno percepito o
non è stato loro spiegato.
Questa vicenda, tuttavia, offre l’occasione per alcune
riflessioni, all’indomani del ripristino
dell’insegnamento dell’educazione civica nelle scuole,
provvedimento adottato con generale consenso dei partiti
presenti in Parlamento perché la scuola deve formare i
cittadini ed i futuri professionisti e, dunque, fornire
nozioni non solo di cultura generale e specifica ma
anche la conoscenza delle regole del vivere comune, a
cominciare dal funzionamento delle istituzioni per dar
conto dei diritti e dei doveri dei cittadini.
Ora la disciplina che è stata reintrodotta, dopo un
periodo di silenzio, viene affidata a docenti che, nella
maggior parte dei casi, provvisti di laurea in lettere
in quanto docenti di storia, hanno scarsa attitudine per
quell’insegnamento che ha una impronta eminentemente
giuridica. Pertanto, in bocca a generici cultori di
“belle lettere”, come si diceva un tempo, diviene
pericolosa, un’arma di possibile indottrinamento nel
quale la Sinistra si è sempre dimostrata abilissima,
come attesta la vulgata della Resistenza contro il
tedesco invasore, che si continua a presentare come
monopolizzata da comunisti e socialisti oscurando
quanti, militari, liberali, cattolici, monarchici hanno
preso le armi in quegli anni difficili, tra il 1943 e il
1945. Ci vuol poco, infatti, per trasformare
l’insegnamento dei principi della Costituzione in uno
strumento di propaganda politica, solo che si
considerino i diritti fondamentali, da quelli delle
persone e delle associazioni, ai diritti di libertà di
pensiero ed economica, alla forma di stato e di governo.
Sappiamo, ad esempio, con riferimento alla democrazia
parlamentare, che ha caratterizzato fin dallo Statuto
Albertino lo Stato italiano, che il Movimento 5
Stelle si fa apertamente promotore di una equivoca
democrazia diretta con richiamo a Rousseau, cui
infatti è intestata la piattaforma informatica che
raccoglie ed elabora le idee di quella forza politica.
Un “democrazia” della rete, attraverso la quale le
scelte di pochi (sempre meno degli iscritti al
movimento) condizionano le decisioni di tanti, i
parlamentari, come si è visto anche di recente.
Ho sempre avuto grandissimo rispetto per la funzione
docente e per chi la esercita (mio nonno insegnava
italiano e latino in un liceo ed ho avuto ben cinque zie
docenti di ginnasio e liceo) e, pertanto, ritengo che lo
Stato non metta a disposizione delle scuole strumenti
didattici adeguati e tratti i docenti come impiegati
pubblici di serie di B, come dimostra la misura degli
stipendi, effetto della scarsa considerazione che la
classe politica riserva all’istruzione.
Contemporaneamente per esperienza, personale e di padre,
percepisco una realtà che attesta la crescente modestia
dei programmi scolastici e dei docenti cui lo Stato,
dopo aver fornito una formazione universitaria spesso
inadeguata (abbiamo in cattedra i laureati con il
diciotto politico), limita la successiva capacità di
aggiornamento. Infatti con gli attuali stipendi è
assolutamente escluso che i docenti dei vari ordini e
gradi siano in condizione di acquistare libri e riviste,
come si richiede per chiunque intenda essere al passo
del dibattito scientifico.
Ho ricordato che l’insegnamento dell’educazione civica è
abbinato alla storia, disciplina abbandonata da tempo.
Si è cominciato con il demonizzare il dato
dispregiativamente definito nozionistico, quanto a date
e nomi, come se fosse inutile sapere chi era Garibaldi,
quando è vissuto e cosa ha fatto, per poi escludere
periodi storici essenziali nell’evoluzione dei fatti. Ad
esempio, il mio nipotino Leonardo, in quinta elementare
sta ancora studiando gli etruschi. Studiando è parola
grossa, parliamo di poche righe, quando noi alla stessa
età sapevamo del Medio Evo, del Rinascimento, del
Risorgimento e della prima guerra mondiale.
Ed a proposito di Garibaldi nello “stupidario della
maturità” si legge che uno studente in un tema di storia
ha sì attribuito al Generale la spedizione dei mille, la
partenza da Genova, ma non con i noti piroscafi Piemonte
e Lombardo ma con un sommergibile. Evidentemente
ignorando il “maturando” che quei mille non sarebbero
entrati neppure nel più moderno sottomarino nucleare e
che nel 1860 non ve ne erano né grandi né piccoli, anche
se nel corso della guerra di secessione americana
saranno sperimentati, con esito tragico, mezzi subacquei
a remi.
Preoccupa, dunque, l’insegnamento dell’educazione civica
se affidata ad una generazione di docenti giustamente
frustrati dall’ingiusto trattamento dello Stato che si
potrebbero trasformare in agenti di una Sinistra
politica che non ha mai condiviso la storia d’Italia.
19 maggio 2019
E il
Cardinale riaccese la luce
Dio
e Cesare: Carità e legalità
di Salvatore Sfrecola
La carità è virtù suprema, insieme alla fede e alla
speranza, ma di esse è “la più grande”, come scrive San
Paolo nella Prima lettera ai Corinzi (13,1), in un inno
straordinario alla misericordia di Dio. Deve averlo
tenuto presente il Cardinale Konrad Krajewski,
Elemosiniere di Sua Santità, che si è recato nei
sotterranei del palazzo di viale delle Province, privo
di energia elettrica perché gli occupanti non hanno
pagato le bollette, e, facendo saltare i sigilli apposti
dalla azienda erogatrice, ha consentito di riaccendere
lampade e frigoriferi. “Ci sono quasi cinquecento
persone, in quel palazzo, un centinaio di bambini…” ha
detto, intervistato da Gian Guido Vecchi per il
Corriere della Sera. E alla domanda sulle bollette
non pagate ha risposto “Si parla di soldi ma non è
questo il problema. Ci sono i bambini. E allora la prima
domanda da porsi è: perché sono lì, per quale motivo?
Com’è possibile che delle famiglie si trovino in una
situazione simile?”.
Domande legittime, perché l’occupazione abusiva di per
sé stessa denuncia una situazione di disagio sociale
gravissimo che è certamente compito delle istituzioni
pubbliche affrontare e risolvere. Evitando tuttavia di
richiamare i massimi sistemi, un metodo che serve per
confondere le idee e rendere i problemi irrisolvibili.
Parliamo di immigrazione da paesi in guerra o in
carestia e dell’accoglienza, dovuta nella misura in cui
è possibile e nelle forme compatibili con le esigenze
delle popolazioni locali alle quali non si deve far
mancare risorse per destinarle ai migranti, se non si
vuole scatenare una guerra tra poveri. Lo stato e le
amministrazioni locali mettono a disposizione immobili,
pagano le bollette delle utenze, luce, acqua e gas anche
agli abusivi senza verificare se abbiano o meno la
possibilità di far fronte a quegli oneri. E questo non
va bene. È giusto pagare per chi non può. Non addebitare
ai bilanci pubblici costi non dovuti se gli “utenti”
possono pagare.
Così accade che se nessuno paga l’azienda erogatrice dei
servizi interrompe l’erogazione di elettricità, gas,
acqua, com’è accaduto nell’immobile ex INPDAI di viale
delle Province dove è intervenuto il Cardinale
Elemosiniere non per pagare le bollette ma con un gesto
eclatante, un po’ rivoluzionario, ponendosi al di fuori
della legalità Che è regola di civiltà e di pacifica
convivenza. I romani dicevano che le regole servono
ne cives ad arma ruant, perché i cittadini non
corrano alle armi per far fronte alle ingiustizie.
Rispetto delle regole alle quali richiama lo stesso Gesù
i uno straordinario versetto del Vangelo (Matteo
22,21):
“Date a Cesare quel che è di Cesare e a
Dio quel che è di Dio” (greco:
Ἀπόδοτε
οὖν
τὰ
Καίσαρος Καίσαρι καὶ
τὰ
τοῦ
Θεοῦ
τῷ
Θεῷ;
latino: Reddite quae sunt Caesaris Caesari et quae sunt
Dei Deo). Carlo Nordio nel suo fondo su Il
Messaggero ricorda anche “libera Chiesa in libero
Stato”.
È stato, quello del Cardinale, un errore grave, che ha
messo in imbarazzo il Vaticano. Non credo che l’episodio
possa sviluppare polemiche anticlericali ma è certo che
non giova alla serena valutazione dei fatti la difesa
che Alberto Melloni fa della vicenda su La Repubblica,
buttandola “in caciara”, come si dice, titolando “a chi
non piace Francesco”, che avrebbe affidato al Cardinale
polacco “il compito di portare ai poveri non i quattrini
del Papa, ma il suo amore”. E tutti hanno capito che non
è questo il tema.
13 maggio 2019
N U O V I A S T E R I S C H I
di Domenico Giglio
Il Cappello degli Alpini
L’adunata degli Alpini, a Milano, dell’11 maggio, nel centesimo
anniversario della fondazione della loro associazione
nazionale, A.N.A., ha dato occasione ad articoli e
servizi televisivi su questa imponente manifestazione,
sul suo significato patriottico, e sulle vicende
storiche di questo corpo, la cui origine risale ad un
Decreto, del 15 ottobre 1872, firmato da Vittorio
Emanuele II.
In questi ricordi e sul significato del tipico cappello, detto
“alla calabrese”, “dalla lunga penna nera”, si è anche
ricordata la proposta, nel secondo dopoguerra, di
abolire questo caratteristico copricapo. All’epoca ci fu
in Parlamento una battaglia, da cui poi uscì vittoriosa
la conferma del cappello alpino, ed in questa battaglia
si distinse un parlamentare del Partito Nazionale
Monarchico, il siciliano, allora colonnello, poi
generale, Antonino Cuttitta, eletto nel 1948 e
riconfermato per ben quattro Legislature.
L’on. Cuttitta, oltre alla battaglia per la conservazione del
cappello piumato, fu un parlamentare attento a tutte le
problematiche militari, con una costante presenza ai
lavori della Camera dei Deputati, con ripetuti
intervenenti, interrogazioni e presentazione di disegni
di legge, sempre a vantaggio delle categorie più
svantaggiate, militari e non, con grande competenza che
gli fu riconosciuta anche dagli avversari politici.
Parlamentare assiduo come pochi, coerente e fedele ai suoi ideali
è ancora oggi un esempio da non dimenticare, che
conferma il ruolo non secondario dei monarchici nella
vita nazionale e parlamentare del primo dopoguerra.
Lo Studio della Storia.
Di fronte alla cancellazione del tema storico alla prossima
maturità ed alla riduzione delle ore dedicate a questa
materia vi è stata una sollevazione, per il loro
ripristino, da parte di numerosi storici, giornalisti,
scrittori ed intellettuali delle più varie ideologie e
posizioni politiche, che condividiamo pienamente. Per
questa azione giorni or sono, il quotidiano “La
Repubblica”, il 27 aprile, ha dedicato ben due pagine
(28 e 29) alle motivazioni della richiesta, ma quello
che è interessante da sottolineare è la figura esposta,
a cavallo delle due pagine, evidentemente ripresa da una
cartolina patriottica dei primi anni del secolo scorso.
Infatti si vede una donna, l’Italia, turrita, appoggiata
ad una spada ed avvolta nel tricolore con lo stemma
sabaudo. In alto i ritratti del Re Vittorio Emanuele
III, e della Regina Elena, ed in basso, nell’ordine,
quelli di Vittorio Emanuele II, Cavour, Garibaldi e
Mazzini, mentre ai lati dell’Italia sono indicati i
principali eventi del nostro Risorgimento, a
sottolineare che la storia non si cancella e che i
Savoia di questa storia hanno fatto parte determinante.
Che lo pubblichi “La Repubblica” ha pure la sua importanza perché
anche lettori ideologicamente lontani hanno potuto
vedere e conoscere dei volti ed una bandiera che si è
cercato di far dimenticare, forse per via di un certo
“peccato originale” risalente al 13 giugno 1946.
Inqualificabile gesto del Sindaco di Bergamo, Giorgio
Gori, che usa la bandiera nazionale per lucidare una
targa
di Salvatore Sfrecola
Diffusa e generale indignazione per il gesto del Sindaco
di Bergamo, Giorgio Gori, piddino di rango, del
quale Facebook ha mostrato un filmato mentre è intento a
lucidare una targa commemorativa usando il tricolore, la
bandiera nazionale. L’occasione, l’inaugurazione di un
parco. Tra i primi a manifestare sdegno l’Avv.
Alessandro Sacchi, Presidente dell’Unione Monarchica
Italiana, che ha stigmatizzato in un comunicato
l’“evidente disprezzo per il vessillo della Patria”
commesso da un pubblico ufficiale, primo cittadino di
una nobilissima Città, senza che nessuno sia intervenuto
a dissuaderlo od a censurare quel gesto gravissimo.
Nessuno dei presenti, nessuno del Partito Democratico
che ha perduto un’occasione per recuperare credibilità
agli occhi degli italiani difendendo i valori nazionali
che la bandiera riassume. Costava poco farlo. Ma il
logorroico Zingaretti ha taciuto. Come Matteo Renzi,
pronto ad ogni piè sospinto a prendere la parola.
Assente anche il Prefetto, rappresentante del Governo.
Un tempo avrebbe richiamato il Sindaco.
Interverrà l’Autorità Giudiziaria? Ce lo auguriamo.
Sulla base dell’art. 292, comma 1, del codice penale che
punisce con una pena pecuniaria “chiunque vilipende con
espressioni ingiuriose la bandiera nazionale o altro
emblema dello Stato”. Pena che è aumentata “nel caso in
cui il medesimo fatto sia commesso in occasione di una
pubblica ricorrenza o di una cerimonia ufficiale”.
Articolo il quale al comma 2 prevede che “chiunque
pubblicamente intenzionalmente distrugge, disperde,
deteriora, rende inservibile o imbratta la bandiera
nazionale o altro emblema dello Stato è punito con la
reclusione fino a due anni”.
Secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione, ai
fini della sussistenza del delitto di quell’art. 292 è
necessario che la condotta di vilipendio si concretizzi
in un atto di denigrazione di una bandiera nazionale
(Cass. Pen., Sez. I, 3 luglio 2006, n. 22891). La
bandiera nazionale spiega ancora la Suprema Corte è
penalmente tutelata per il suo valore simbolico,
suscettibile, per sua natura, di essere leso anche da
semplici manifestazioni verbali di disprezzo, la cui
penale rilevanza, ai fini della configurabilità del
reato, richiede quindi soltanto la percepibilità da
parte di altri soggetti” (Cass. Pen., Sez. I, 19
dicembre 2003, n. 48902).
Orbene, nella condotta del Sindaco Gori c’è
evidentemente l’elemento della intenzionalità,
dell’occasione pubblica, e del deterioramento del
vessillo che, se usato per lucidare o spolverare una
targa, avrà certamente subito gli effetti di tale
impiego.
Poteva mettere la mano in tasca ed usare un fazzoletto
il Sindaco. Ha preferito usare la bandiera nazionale con
evidente disprezzo per il suo valore simbolico, per
dirla con le parole della Suprema Corte.
Da notare che neppure associazioni “patriottiche”, a
quanto è dato sapere, sono intervenute. Che scemi
l’amore per la Patria? Dopo anni di negazione dei valori
risorgimentali, gli unici unitari, non può stupire.
12 maggio 2019
Un libro di Rossella Pace
La resistenza liberale in Piemonte, nelle città e nelle
valli
di Salvatore Sfrecola
Non solo comunisti, socialisti e
gruppi del Partito d’Azione, come vorrebbe la narrazione
che ancora oggi oscura l’impegno che sulle montagne,
nelle valli e nelle città hanno svolto, dopo l’8
settembre 1943, i partigiani cattolici e liberali, che
meglio vanno definiti patrioti, per distinguerli
da quanti combattevano in nome di un partito politico,
e, con particolare impegno, i reparti ricostituiti del
Regio Esercito fedeli al giuramento di fedeltà prestato
al Re. Che furono i primi a prendere le armi contro i
tedeschi invasori. Ad essi si unirono poi ex prigionieri
di guerra, fuoriusciti ed ex condannati politici:
“uomini e tante donne, di ogni età e di tutte le
opinioni, tanto che in brevissimo tempo fu possibile
organizzare in tutta Italia numerosissime bande che non
lasciarono nessun margine di mobilità all’invasore
tedesco, combattendolo e ostacolandolo in ogni sua mossa
con azioni di guerriglia”, come si legge nel libro di
Rossella Pace, “Una vita tranquilla, La Resistenza
liberale nelle memorie di Cristina Casana” (Rubbettino,
Soveria Mannelli, 2018), in questi giorni al Salone
del Libro di Torino.
Preziosissimo e assolutamente
originale il lavoro di Rossella Pace, PHD Student
in Storia dell’Europa presso l’Università di Roma
“La Sapienza”, che irrompe nella storiografia
resistenziale dando dimostrazione, attraverso le vicende
di una nobile famiglia piemontese, quella dei Casana,
dell’impegno della società civile nella lotta per la
liberazione dai tedeschi. I Casana, come altri esponenti
dell’alta borghesia e dell’aristocrazia piemontese,
liberali, cattolici, da sempre antifascisti, scendono in
campo con le loro amicizie e parentele con le quali si
collegano in Lombardia, in Toscana e nella Capitale.
Rapporti personali che Rossella Pace ricostruisce
dettagliatamente mettendo in evidenza, attraverso il
“Libro d’Oro della Nobiltà Italiana”, uno straordinario
intreccio di relazioni familiari spesso consolidate
sulla base di importanti esperienze professionali, dai
Taverna ai Boncompagni Ludovisi.
Ne nasce una rete straordinariamente
efficiente, che imbriglia l’azione delle unità tedesche
nelle città e nelle campagne, che opera autonomamente o
in collegamento con altre formazioni, così assicurando
supporto logistico a quanti avevano scelto di
contrastare l’invasore. Una rete prodigiosa di
collegamenti della quale è un esempio l’“Organizzazione
Franchi” diretta da un giovane ardimentoso, Edgardo
Sogno Rata del Vallino di Ponzone, liberale, monarchico,
antifascista, Medaglia d’oro al valor militare, nome di
battaglia “Franchi”, appunto. Autore di azioni
coraggiose come le fughe dal carcere rimaste leggendarie
per la temerarietà dimostrata, il Comandante Franchi ed
i suoi uomini hanno scritto pagine gloriose che i
giovani dovrebbero conoscere. Ricorda Rossella Pace
l’appello di Sogno, redatto in casa di Uguccione Ranieri
di Sorbello, e fatto recapitare, prima, ai grandi vecchi
liberali (Casati, Croce, Nina Ruffini e Giuliana
Benzoni), sottoscritto come Comitato Centrale
Esecutivo Dei Gruppi Liberali Monarchici Italiani, e
poi fatto pervenire al Re. Fu il momento in cui questi
giovani ruppero ogni indugio per impegnarsi contro
l’invasore.
Ho avuto l’onore di incontrare il
Conte Sogno che, ormai anziano, mi colpì per il suo
sguardo fermo che esprimevano la fede che aveva ispirato
le sue azioni, l’ardimento con il quale si era gettato
nella mischia.
Il Libro di Rossella Pace, dunque,
ci fa conoscere uno scenario, quello della “resistenza
civile” condotta dalle donne come Cristina Casana
senz’armi, che la storiografia prevalente ha ignorato
“almeno fino agli anni Novanta – scrive l’A. –
continuando a considerare e a valutare l’operato
femminile nell’ambito resistenziale in base al grado di
avvicinamento ai valori e alle dinamiche delle azioni
maschili, procedendo a inclusioni ed esclusioni su tale
base” (pagina 28). Ciò che contribuisce a quella
rivisitazione degli eventi che scrittori come Giampaolo
Pansa vanno conducendo, non per negare l’impegno di
alcuni ma per sottolineare il rilievo della
partecipazione dei combattenti cattolici e liberali che,
insieme ai militari del Regio Esercito, dell’Arma dei
Carabinieri e della Guardia di Finanza, hanno
contribuito in modo significativo alle operazioni ed al
risultato finale, come dimostra la liberazione di alcune
città d’Italia attuata dai militari italiani ben prima
che giungessero inglesi e americani. A fronte di una
versione “ufficiale” degli eventi manipolata a fini di
parte da un partito politico, il Comunista, che ambiva a
prendere il potere ed a condizionare il previsto
referendum su Monarchia e Repubblica, com’è avvenuto. Ed
anche per nascondere quella scia di sangue fatta di
vendette personali, di brutali massacri di innocenti
disvelati da Pansa nei suoi libri e che gli hanno
decretato l’ostracismo delle sinistre dalle quali pure
proveniva.
In Piemonte, come ci spiega bene
Rossella Pace, raccontando delle esperienze della
famiglia Casana, l’impegno di questi uomini e donne
coraggiosi fu fondamentale, ispirato al senso di
appartenenza, al desiderio di riscattare la Patria
assurdamente coinvolta in una guerra che gli italiani
non avevano nessun interesse a combattere a fianco del
“nemico storico”, per dirla con Luigi Einaudi,
trascurando il ruolo mediterraneo del nostro Paese di
recente ancor più rafforzato dalla presenza italiana
nelle isole dell’Egeo, in Libia e nell’Africa, territori
raggiungibili esclusivamente via mare e, pertanto,
rapidamente perduti dopo pochi mesi di guerra.
Le esperienze narrate da Rossella
Pace ci fanno tornare alla mente l’impegno di patrioti
coraggiosi nella Capitale, dove il Colonnello Giuseppe
Cordero Lanza di Montezemolo animava la resistenza
impegnando molti militari, come il Maggiore dei Reali
Carabinieri Ugo de Carolis, entrambi martiri alle Fosse
Ardeatine, dopo essere stati torturati nella prigione
della Gestapo di Via Tasso, senza mai fare un solo nome.
Il libro di Rossella Pace è stato
presentato nei giorni scorsi a Torino, con il concorso
di numeroso pubblico e l’intervento di personalità, come
il Prof. Francesco Forte, economista e già Ministro
delle finanze, degli avvocati Edoardo Pezzoni Mauri e
dell’Avvocato Alessandro Sacchi, rispettivamente del
Foro di Torino e di Napoli. Relatori e partecipanti sono
stati presentati al pubblico dal Generale Roberto Lopez,
Coordinatore dell’Unione Monarchica Italiana piemontese.
Ed oggi richiama l’attenzione dei visitatori nel
Salone del Libro aperto nel capoluogo sabaudo.
11 maggio 2019
FRAMMENTI DI RIFLESSIONI
del Prof. Avv. Pietrangelo Jaricci
Giustizia amministrativa
La
qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile
soltanto a opere di modesta entità e accessorie rispetto
a un’opera principale, quali, ad esempio, i piccoli
manufatti per il contenimento di impianti tecnologici,
ma non anche a opere che, dal punto di vista delle
dimensioni e della funzione, si connotino per una
propria autonomia rispetto all’opera cosiddetta
principale e non siano coessenziali alla stessa, tali,
cioè, che non ne risulti possibile alcuna diversa
utilizzazione economica. Occorre, pertanto, il titolo
edilizio per la realizzazione di nuovi manufatti
quand’anche, sotto il profilo civilistico, si possano
qualificare come pertinenze (Cons. Stato, Sez. VI, 17
maggio
2017, a
cura di A. Corrado, in Guida dir., n. 24/2017,
113).
Gli ultimi giorni di Kant
Il volume di Thomas de Quincey, “Gli ultimi giorni di
Immanuel Kant” (a cura di Fleur Jaeggy, 6ª ed.,
Milano, 2011), che frequentava con assiduità la casa del
Maestro dal 1790, narra la fase conclusiva
dell’esistenza terrena di Kant, pensatore acuto ed
originale, che ha dedicato tutta la sua vita alla
meditazione e all’insegnamento universitario.
Secondo di sei figli, era nato a Königsburg, in Prussia,
il 22 aprile 1724 ed ivi si spense il 12 febbraio 1804.
Gigante del pensiero filosofico, fondatore del
criticismo e precursore dell’idealismo, tra
le sue numerose opere come fondamentali devono essere
ricordate “Critica della Ragion pura” e
“Critica della Ragion pratica”.
Uno dei segnali negativi della incipiente vecchiaia fu
l’accentuarsi di un sensibile declino della memoria, al
punto che iniziò a scrivere una serie di appunti su ogni
pezzo di carta che gli capitava tra le mani. Conservava,
invece, un ricordo nitido degli eventi ormai lontani nel
tempo, potendo anche recitare a memoria interi brani di
poemi tedeschi e latini e, in particolare, dell’Eneide.
Ricorda ancora de Quincey che altro segno del suo
declino mentale era una certa debolezza delle teorie che
iniziava a proporre, spiegando tutto con il fenomeno
dell’elettricità.
I suoi dolori di testa erano sempre più frequenti e
viveva in uno stato di perpetua rassegnazione.
Altro segnale del declino delle sue facoltà fu la
perdita della corretta percezione del tempo e il
generale decadimento di tali facoltà provocò anche un
graduale sconvolgimento delle sue abitudini
esistenziali.
Ma era ormai stanco della vita e anelava l’ora del
congedo. Soleva ripetere spesso “Non posso più servire
al mondo, sono un peso a me stesso”.
Osserva ancora de Quincey che “le sue facoltà stavano
andando in cenere; ma, di quando in quando, qualche
lingua di fiamma, qualche bagliore di una grande luce si
irradiava per mostrarci che il vecchio fuoco stava
ancora covando”.
Il 12 febbraio del 1804 Kant cessava di vivere e con lui
la sua grandiosità intellettuale, la sua prodigiosa
cultura, la sua ineguagliata profondità nella ricerca,
la mirabile passione per l’insegnamento universitario,
l’austera onestà della sua vita, ispirata al più elevato
raziocinio.
Le sue spoglie mortali furono tumulate nella cripta
accademica, dove egli riposa fra i patriarchi
dell’Università.
Perché?
Perché ogni qualvolta che un magistrato del Consiglio di
Stato ha diritto di essere valutato per il conferimento
di un incarico di maggior prestigio emergono
sistematicamente, al pari di una bomba ad orologeria,
dettagli sconcertanti sulla sua condotta, con
inevitabile sospensione del procedimento di nomina?
E
questo ignorando l’interessato il reato contestato, le
indagini
compiute e senza nemmeno essere stato interrogato dagli
inquirenti.
Ma
ciò non sorprende più di tanto. Siamo in Consiglio di
Stato.
Succede anche questo
- Con
decreto del Ministero dell’Interno del 31 gennaio 2019
(in Gazzetta Ufficiale n. 79 del 3 aprile 2019)
la parola genitori viene sostituita da padre
e madre nelle carte di identità dei minorenni.
La
Sindaca di Torino Appendino ha dichiarato che tornare
alla vecchia dicitura costituisce un “passo indietro”.
Chiamatelo passo indietro!
- Due
donne della nostra Marina Militare si sono unite
civilmente a La Spezia. Tra gli auguri pervenuti alla
coppia vanno ricordati quelli della Ministra della
Difesa Trenta, la cui valutazione dell’evento come
esempio di “una importante evoluzione
culturale nelle Forze Armate” non appare né
opportuna, né convincente.
8
maggio 2019